Vivere nella frazione di un comune che conta in totale poco più di duemila persone è piuttosto limitante dal punto di vista delle amicizie. Non è che hai chissà quanta scelta.
Vivere in un paesino significa conoscere tutti, da sempre. Significa essersi seduti sulle stesse panchine, significa avere bene in mente chi sono i protagonisti delle scritte incise sui tavolini del parco: Sami e Jessica 4ever, Sonia troia, Mario ti amo... Ci sono solo un Sami, solo una Jessica, solo una Sonia, solo un Mario in tutto il paese. Non ti puoi sbagliare.
Vivere in un paesino significa frequentare la stessa scuola, dove le classi non hanno nemmeno sezioni. Sono tutte A, la B non esiste in nessun caso e anche la A, ad essere sinceri, spesso rischia di scomparire.
Vivere in un paesino significa che a 12 anni non puoi dire a nessuno che ti piace uno, altrimenti due ore dopo l'avrà scoperto anche tuo padre. Per non parlare poi di quello che succede quando sei tu a piacere a uno che non è esattamente quel tipo con gli occhi azzurri (il Sami della Jessica per capirci) con cui tappezzi diari, testa, cuore. Ricordo ancora la vergogna che provavo quando dal mio zaino spuntavano letterine scritte al computer, palesemente copiate da internet, circondate da cuoricini e rose rosse. Io facevo finta di niente, tornavo a casa, leggevo e bruciavo, quando non mi vedeva nessuno ovviamente. Il sommo poeta era sfortunatamente un mio compagno di classe, tale Danilo, che all'epoca era davvero bruttino. Come se non bastasse poi rompeva le scatole a tutte le ore, anche quando c'erano i prof. Mi ricordo ancora che se ne usciva con frasi come Quanto è bella l'Elisa, Muoio dalla voglia di baciarti. Queste cose così quando c'erano i professori. E avevamo 11, forse 12 anni. Io mi vergognavo come una ladra e, per quanto potevo, lo ignoravo. In classe era tutta una presa in giro e una risata, lui era tutto un chiacchierare e io tutto un diventare rossa di rabbia.
Ma. C'è un ma. Quella con Danilo è stata la presa in giro minore, quella riguardava solo la nostra classe, ma ce n'era una che volava veloce di bocca in bocca, in tutta la scuola. Questo tipo qui, Alessandro, era nella classe accanto alla mia, nella classe di quelli dell'89 e dico mai, MAI, mi ha rivolto la parola. Mai. Eppure se per caso ci ritrovavamo vicini a ricreazione, e in quel minuscolo corridoio era possibile, era tutto un ridere, un bisbigliare, un fuggi fuggi generale. Quando qualcuno parlava con me di Alessandro mi faceva l'occhiolino. Facevano tutto gli altri, lui non faceva niente, figuriamoci io. Non mi sembrava così brutto, però non era nemmeno l'amore mio. E poi già a 12 anni avevo bene in mente l'idea che sono gli uomini a dover fare il primo passo, ci mancherebbe altro.
Un giorno eravamo tutti fuori per quella fantastica settimana dell'autonomia in cui non si faceva niente. Eravamo al parco, a un certo punto è arrivato Riccardo, mio compagno di classe, e mi ha detto: Elì, Alessandro ti ama, ha detto se vuoi metterti con lui. È laggiù. Ho guardato, era tutto piegato in una di quelle casette di plastica per bambini. Non ricordo più se avevo caldo o freddo, ma ero arrabbiata. Non era il mio Sami, era solo Alessandro. E io un Alessandro qualunque non lo volevo. Così, senza pensarci due volte, ho detto a Riccardo di andare affanculo, insieme al mio spasimante. Non credo fosse mai uscito un vaffanculo dalla mia bocca prima.
Alessandro non mi ha mai parlato in tutti quegli anni delle medie, però in compenso tutti sapevano che aveva una cotta gigantesca per me. Lo sa anche suo padre, che quando qualche anno fa si è ritrovato a lavorare con mia sorella, le ha confidato che non aveva mica scelto male, suo figlio.
Mi viene da ridere ogni volta che lo incontro, adesso che passa le sue giornate tra lavoro e palestra, adesso che si è lavorato una tartaruga di tutto rispetto, adesso che passa ogni sabato tra birra, vino e ragazze sicuramente meno difficili e più disinibite della sottoscritta.
A volte mi viene voglia di chiedergli scusa per aver pronunciato il mio primo vaffanculo verso di lui, che invece, timidamente, mi avrebbe volentieri regalato il suo cuoricino. Chissà poi che cosa gli piaceva di me, chissà che cosa ci trovava in una secchioncella dai lunghi capelli sempre legati che non usciva mai, che aveva le sopracciglia folte ed era così timida, ma così timida, che spesso avrebbe voluto scomparire. Davvero, chissà che cosa avevo di speciale ai suoi occhi, io che riguardando le foto di quegli anni mi trovo davvero imbarazzante.
Poverino, io l'ho trattato così male.
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Avevo iniziato questo post per parlare di un'altra cosa, ma i pensieri sono andati avanti per conto proprio. Volevo parlare di amicizia, o presunta tale, e mi sono ritrovata a raccontare dei ragazzini che mi venivano dietro. Sto delirando stasera, sarà colpa della sconfitta nel derby milanese #oppurediVendola che stasera ho ammirato in tutto il suo splendore oratorio a In onda. Sì, forse sono state le sue parole e le sue metafore a mandarmi in tilt e a confondermi le idee su quello che volevo scrivere.
Direi che dopo essermi persa così inutilmente in chiacchiere posso anche andare a dormire.
Vivere in un paesino significa conoscere tutti, da sempre. Significa essersi seduti sulle stesse panchine, significa avere bene in mente chi sono i protagonisti delle scritte incise sui tavolini del parco: Sami e Jessica 4ever, Sonia troia, Mario ti amo... Ci sono solo un Sami, solo una Jessica, solo una Sonia, solo un Mario in tutto il paese. Non ti puoi sbagliare.
Vivere in un paesino significa frequentare la stessa scuola, dove le classi non hanno nemmeno sezioni. Sono tutte A, la B non esiste in nessun caso e anche la A, ad essere sinceri, spesso rischia di scomparire.
Vivere in un paesino significa che a 12 anni non puoi dire a nessuno che ti piace uno, altrimenti due ore dopo l'avrà scoperto anche tuo padre. Per non parlare poi di quello che succede quando sei tu a piacere a uno che non è esattamente quel tipo con gli occhi azzurri (il Sami della Jessica per capirci) con cui tappezzi diari, testa, cuore. Ricordo ancora la vergogna che provavo quando dal mio zaino spuntavano letterine scritte al computer, palesemente copiate da internet, circondate da cuoricini e rose rosse. Io facevo finta di niente, tornavo a casa, leggevo e bruciavo, quando non mi vedeva nessuno ovviamente. Il sommo poeta era sfortunatamente un mio compagno di classe, tale Danilo, che all'epoca era davvero bruttino. Come se non bastasse poi rompeva le scatole a tutte le ore, anche quando c'erano i prof. Mi ricordo ancora che se ne usciva con frasi come Quanto è bella l'Elisa, Muoio dalla voglia di baciarti. Queste cose così quando c'erano i professori. E avevamo 11, forse 12 anni. Io mi vergognavo come una ladra e, per quanto potevo, lo ignoravo. In classe era tutta una presa in giro e una risata, lui era tutto un chiacchierare e io tutto un diventare rossa di rabbia.
Ma. C'è un ma. Quella con Danilo è stata la presa in giro minore, quella riguardava solo la nostra classe, ma ce n'era una che volava veloce di bocca in bocca, in tutta la scuola. Questo tipo qui, Alessandro, era nella classe accanto alla mia, nella classe di quelli dell'89 e dico mai, MAI, mi ha rivolto la parola. Mai. Eppure se per caso ci ritrovavamo vicini a ricreazione, e in quel minuscolo corridoio era possibile, era tutto un ridere, un bisbigliare, un fuggi fuggi generale. Quando qualcuno parlava con me di Alessandro mi faceva l'occhiolino. Facevano tutto gli altri, lui non faceva niente, figuriamoci io. Non mi sembrava così brutto, però non era nemmeno l'amore mio. E poi già a 12 anni avevo bene in mente l'idea che sono gli uomini a dover fare il primo passo, ci mancherebbe altro.
Un giorno eravamo tutti fuori per quella fantastica settimana dell'autonomia in cui non si faceva niente. Eravamo al parco, a un certo punto è arrivato Riccardo, mio compagno di classe, e mi ha detto: Elì, Alessandro ti ama, ha detto se vuoi metterti con lui. È laggiù. Ho guardato, era tutto piegato in una di quelle casette di plastica per bambini. Non ricordo più se avevo caldo o freddo, ma ero arrabbiata. Non era il mio Sami, era solo Alessandro. E io un Alessandro qualunque non lo volevo. Così, senza pensarci due volte, ho detto a Riccardo di andare affanculo, insieme al mio spasimante. Non credo fosse mai uscito un vaffanculo dalla mia bocca prima.
Alessandro non mi ha mai parlato in tutti quegli anni delle medie, però in compenso tutti sapevano che aveva una cotta gigantesca per me. Lo sa anche suo padre, che quando qualche anno fa si è ritrovato a lavorare con mia sorella, le ha confidato che non aveva mica scelto male, suo figlio.
Mi viene da ridere ogni volta che lo incontro, adesso che passa le sue giornate tra lavoro e palestra, adesso che si è lavorato una tartaruga di tutto rispetto, adesso che passa ogni sabato tra birra, vino e ragazze sicuramente meno difficili e più disinibite della sottoscritta.
A volte mi viene voglia di chiedergli scusa per aver pronunciato il mio primo vaffanculo verso di lui, che invece, timidamente, mi avrebbe volentieri regalato il suo cuoricino. Chissà poi che cosa gli piaceva di me, chissà che cosa ci trovava in una secchioncella dai lunghi capelli sempre legati che non usciva mai, che aveva le sopracciglia folte ed era così timida, ma così timida, che spesso avrebbe voluto scomparire. Davvero, chissà che cosa avevo di speciale ai suoi occhi, io che riguardando le foto di quegli anni mi trovo davvero imbarazzante.
Poverino, io l'ho trattato così male.

Avevo iniziato questo post per parlare di un'altra cosa, ma i pensieri sono andati avanti per conto proprio. Volevo parlare di amicizia, o presunta tale, e mi sono ritrovata a raccontare dei ragazzini che mi venivano dietro. Sto delirando stasera, sarà colpa della sconfitta nel derby milanese #oppurediVendola che stasera ho ammirato in tutto il suo splendore oratorio a In onda. Sì, forse sono state le sue parole e le sue metafore a mandarmi in tilt e a confondermi le idee su quello che volevo scrivere.
Direi che dopo essermi persa così inutilmente in chiacchiere posso anche andare a dormire.